La volta di Paolo Pagani
Nell’ultima pagina del registro della Confraternita del Rosario, istituita nella chiesa di San Martino in Castello Valsolda attorno alla metà del ‘500 e conservato nell’archivio parrocchiale, si leggono le seguenti preziose informazioni:
« Nel nome del Signore l'anno 1696 nel mese di marzo arrivo in patria da Moravia il signor Paolo Pagani quondam signor Angelo con la signora Antonia sua consorte et Angiolino d'età di un anno e mezzo circa suo figlio e subito fece per sua divozione involtare la nostra Chiesa Parrocchiale di S. Martino di Castello a sue spese e di sua propria mano la dipinse et nel termine di un anno e mezzo il tutto si ridusse a perfezione come oggi si vede. »
Studi recenti hanno documentato che la devozione alla Confraternita del Rosario, di cui era allora priore, nascondeva però un'ulteriore ambizione del pittore: celebrare il prestigio e l’antica nobiltà della propria famiglia in anni in cui, attraverso avventurose ricerche araldiche rivelatesi fraudolenti, Pagani cercò di vedere riconosciuta legalmente l’antica nobiltà della sua stirpe per agevolare l’adozione del figlio Angelo da parte del marchese Cesare Pagani, suo mecenate privo di eredi diretti. Pagani raccontò sulla volta temi iconografici diversi, scanditi in tre scene ben distinte: in corrispondenza della cappella dedicata al Battista, Pagani dipinse la Predicazione di S. Giovanni Battista (1), la furente figura del santo, che annuncia, attorniato da angeli, sibille e profeti, la venuta del Messia e ci invita alla conversione, all’interno di questo gruppo troviamo anche il ritratto Paolo Pagani si ritrae quasi nascosto tra le ali dell’angelo alla sinistra del Battista, ma con la mano alzata ad indicarci però la sua presenza (5); sul lato opposto raffigurò invece la condanna a morte delle SS. Apollonia Caterina e Lucia (2). La bandiera indicata dal giudice romano reca lo stemma della famiglia Pagani e vi si legge la scritta “RE:VIXIT ET VIVIT 1697”, ad indicare che la stirpe Pagani ha origini regali e regalmente visse e ancora vive nella discendenza del pittore: dal momento che i Pagani di Valsolda non potevano vantare origini nobili, quell’insegna si configurava in realtà come un’abile mistificazione dell’artista che, proprio in quell’anno, finse di trovare in un anfratto della sua casa di famiglia, antichi documenti attestanti la nobilta e gli antichi fasti della sua progenie, a partire dai lontani Meles e Lamech, re d’Africa, diretti discendenti di Ismaele figlio di Abramo. I due episodi rappresentati alludono alle speranze e alle incredulità seguite all’avvento del Messia sulla terra: i colori e la luce sono discriminanti su tutta la superficie della volta e dividono i giusti dagli ingiusti, i pagani dai cristiani. Infatti, sia nella storia generale, sia in quella particolare della stirpe dei Pagani, il paganesimo precede il cristianesimo cui si perviene attraverso il Battista e il battesimo.
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La zona centrale è destinata poi alla descrizione delle anime elette, con angeli che volteggiano nell’aria accompagnando nell’ascensione le tre sante (3), che si ricongiungono cosi idealmente alla Vergine, punto focale dell’intera volta (4). Nello spazio sopra l'arco trionfale sono poste le figure degli Apostoli dai quali la Madonna si è dipartita, mentre sulla volta si osserva, ormai lontana, la Vergine trascinata in cielo da una straordinaria moltitudine di presenze angeliche; il vortice di immagini che sale verso l'alto trascina con se, come in un sogno, anche le figure delle tre sante martiri. Più in alto ancora nella cupola, si osservano tre figure maschili pronte ad accogliere la Vergine. Qui Pagani recupera, traducendola in una immagine aerea e misteriosa, l'antica raffigurazione della Trinità.
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L’effetto è un colpo d’occhio conturbante, un intreccio lievitante e inestricabile di corpi, accentuato dal registro cromatico ricco di cangiantismi. Valore aggiunto di quest’opera è certamente la straordinaria abilità esecutiva di Paolo Pagani, il quale ha lavorato “a giornate”, realizzando gruppi di due o tre figure alla volta, rese senza segno di spolvero o graffito, cioè senza cartoni preparatori, ma di getto, direttamente sul posto. In virtù di ciò e dell’articolata invenzione compositiva, la volta di Castello si impone nel contesto lombardo come un episodio di grande rilievo e di grande valenza innovativa.
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